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B2C, miti e leggende – “La leggenda della strega di Benevento”

B2C, miti e leggende – “La leggenda della strega di Benevento”

Le montagne del Sannio declinano verso la conca che accoglie la città di Benevento cingendola dolcemente con un abbraccio, mentre due fiumi, il Calore e il Sabato, la circondano. Tutt’intorno la campagna, coltivata ordinatamente, dona i suoi frutti abbondanti nel mesi in cui le calde o le miti temperature rinvigoriscono la vegetazione. La nebbia, nei mesi più rigidi, spesso sormonta la cittadina come una cupola che cinge le alture circostanti non lasciando neppur intravedere dall’alto la sua immagine, mentre il gelo e le brinate mattutine si alternano a quella coltre grigiastra tra giornate soleggiate, piovose o tra nevicate che accarezzano il paesaggio rivestendolo di un candido manto. Ma al primo canto degli uccellini, quando le prime “lievi temperature miti” ritornano, la campagna si tinge di verde smeraldo per poi passare, nei mesi più caldi, al giallo oro dei campi. Lo scorrere del tempo e delle stagioni, che mutano i colori della natura, lasciano inalterato il profilo delle sue cime che. osservate dalla città, disegnano la sagoma di una donna che pare giacere distesa addormentata, detta la “Dormiente del Sannio”. Ma, oltre la zona coltivata, fitti boschi e ampie gole ricoprono il territorio.

Tra questi agresti paesaggi, probabilmente durante il periodo del regno longobardo su Benevento, nacque la leggenda della strega di Benevento. Un enorme albero di noce, un fiume, notti tempestose, misteriosi esseri che volano su delle scope, danze sfrenate, riti e orge sataniche fanno parte della trama della leggenda, ancora oggi radicata nelle tradizioni locali.

Nell’oscurità della notte, quando il silenzio pervadeva la vallata e il buio nascondeva alla visuale i suoi “lineamenti”, una realtà occulta prendeva vita, mentre il sonno accompagnava dolcemente le ore notturne degli abitanti locali.

“‘nguento ‘nguento,

mànname a lu nocio ‘e Beneviente,

sott’a ll’acqua e sotto ô viento,

sotto â ogne maletiempo”

 

(tradotto dal dialetto beneventano:

“unguento unguento

portami al noce di Benevento

sotto all’acqua e sotto a vento

sotto a ogni cattivo tempo”)

Queste parole risuonavano nel “silenzio inquietante” della notte, recitate come una formula magica dalle streghe prima di prendere il volo per raggiungere la loro meta e tenere i loro sabba: veneravano Lucifero sotto forma di cane o caprone e lo nutrivano con sesso di demoni. Sotto a un grande noce avvenivano i riti satanici, il color fuoco dei falò rischiarava le tenebre mentre offrivano al demonio vittime sacrificali, solitamente piccoli animali rubati ai contadini, e lo scroscio del fiume Sabato nelle vicinanze faceva da sottofondo ai loro gemiti infernali. Ma alle prime luci dell’alba le streghe si ritiravano, infastidite dal primo chiarore che, poco dopo, aumentando di intensità, le avrebbe uccise.

Alcune streghe beneventane, dal carattere aggressivo e acido, si chiamavano “janare”. Le loro arti magiche erano accompagnate da una buona conoscenza delle erbe medicamentose, oltre a quella di narcotici e di stupefacenti. Intrugli di queste erbe servivano loro anche per ottenere un unguento utile per renderle invisibili. Nel profondo della notte, quando il sonno sopraffaceva soprattutto i giovani uomini, si diceva che le streghe si divertissero a saltare sadicamente sopra i loro corpi per farli soffocare. Inoltre, si credeva che il treppiede, usato nel focolare per sostenere il calderone, venisse utilizzato dalle “janare” per storpiare i bambini improvvisamente, creando loro inaspettate deformità.

Le “janare” erano solite uscire di notte per intrufolarsi nelle stalle, rubare una giumenta e cavalcarla per tutta la notte. Avrebbero avuto, inoltre, l’abitudine di fare le treccine alla criniera della giovane cavalla rapita per lasciare un segno della loro presenza. Ma molto spesso l’animale moriva stremato dopo la frenetica corsa incitata dalla “janara”. I contadini, per evitare il rapimento, erano soliti deporre all’ingresso della stalla un sacco di sale e una scopa, cosicché la strega, per contare tutti i grani di sale e i fili della scopa, faceva giorno.

Se ci si trovava davanti una strega, bisognava afferrarla per il suo punto più debole, i capelli. Alla sua domanda “che tie’ ‘n mano?” (“cosa hai tra le mani?”) bisognava rispondere “fierro e acciaro” (ferro e acciaio): così facendo la “janara” sarebbe rimasta bloccata senza possibilità di fuga. Se, invece, alla medesima domanda posta dalla strega si fosse risposto “capiglie” (capelli), allora la megera avrebbe detto “e ieo me ne sciulio comme a n’anguilla” (e io me ne scivolo via come un’anguilla) e si sarebbe data alla fuga.

La leggenda e le credenze delle streghe di Benevento e dei loro riti hanno dato spunto al nome del noto liquore della città, chiamato appunto “Liquore Strega”.

(Francesca Martino, nata a Varese: sigla del nome e del cognome: FM, ’21)

 

Bibliografia e sitografia

Benevento (Wikipedia).

Janara (Wikipedia).

“La leggenda della strega di Benevento” (ESSEREALTROVE).

“Sarminia, la leggenda della strega di Benevento” (AGORAVOX).